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È la specialità italiana per antonomasia, simbolo di una tradizione e di una cultura gastronomica che hanno saputo conquistare tutto il mondo: signori e signore, oggi si parla di pizza! E lo facciamo andando a conoscere da vicino origini e caratteristiche delle sue varietà più note legate al territorio e alla cultura locale. Perché se la prima immagine che richiama alla mente è quella di un disco di pasta tondo ricoperto dal bianco della mozzarella e dal rosso del pomodoro, c’è chi invece la preferisce in fetta alta e soffice, chi la ama sottile e croccante, chi col bordo alto e ripieno. Vedremo che sono tanti i modi di dire la stessa cosa: pizza, una parola che non si traduce, ma parla il linguaggio universale di ciò che, con semplicità, sa regalare momenti di non trascurabile felicità. Pronti a viaggiare con noi alla scoperta dei tipi di pizza più noti?
Tipi di pizza: le varianti locali più note
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In un paese dalla cultura enogastronomica così vasta e articolata come il nostro, ci sono tante specialità e prodotti che sono ormai eccellenze note a livello mondiale. Se però dovessimo scegliere quella più rappresentativa, la pizza è la prima che viene in mente. Sdoganata ormai a ogni latitudine, l’Italia ne è la patria indiscussa, come sancito anche dal riconoscimento Unesco, che nel 2017 ha dichiarato l’Arte del pizzaiuolo napoletano patrimonio culturale dell’umanità.
La pizza napoletana, oltre a essere la più conosciuta e apprezzata, ha avuto il merito di rendere questa specialità popolare in tutto il paese, dando luogo ad alcune varianti locali. Se a partire da Milano, ad esempio, ha trovato diffusione la versione al trancio, Torino è città simbolo di quella al tegamino, mentre dalla capitale si è diffusa la cultura della pizza alla romana. Andiamo a scoprirle insieme, in questo appetitoso viaggio.
Pizza napoletana, ovvero la pizza per antonomasia
La regina indiscussa delle pizze è lei, la pizza napoletana: tonda, con la pasta sottile al centro e il bordo rigonfio da cui emergono le bollature scure dovute alla cottura. È così che tipicamente si presenta la pizza napoletana, con piccole differenze che possono riguardare soprattutto la dimensione e il pronunciamento del bordo, detto “cornicione”. La pizza napoletana è l’unica riconosciuta a livello europeo come STG, ovvero Specialità Territoriale Garantita. Un modo per tutelarne l’identità territoriale e le caratteristiche, con la specifica indicazione degli ingredienti di base, ovvero: farina di grano tenero, acqua, sale e lievito di birra, per l’impasto.
Per quanto riguarda la farcitura, invece, si ammettono le due varianti Margherita e Marinara. La prima, quella più nota e storicamente creata in onore della Regina Margherita di Savoia, prevede pomodoro, mozzarella STG (prodotta a partire da latte vaccino intero), olio extravergine di oliva e basilico fresco. Il disciplinare che definisce la STG include, inoltre, la versione con Mozzarella di Bufala Campana DOP. La seconda, invece, la più antica, il pasto tipico che i pescatori portavano con sé quando salpavano per il mare aperto, contempla pomodoro, aglio, origano, acciughe e olio EVO.
Oltre a quelli tutelati dalla denominazione STG, tra i condimenti più tipici vale la pena citare salsiccia e friarielli, con una base bianca, ovvero con solo mozzarella o provola affumicata, e senza pomodoro. È ormai nota anche la variante con cornicione ripieno, più piccola di diametro, ma bombata: parte della pasta viene infatti tirata in modo da avere un bordo più pronunciato, che racchiude una farcitura solitamente di ricotta.
Da sottolineare come l’olio non sia previsto nell’impasto, ma solo da aggiungere a crudo, a cottura ultimata. A questo proposito, aspetto caratterizzante della pizza napoletana verace è la cottura direttamente sul piano del forno, tradizionalmente a legna, che avviene ad alta temperatura e per pochi minuti. Fondamentali in questo l’abilità e l’esperienza del pizzaiolo nel gestire tempi e modi.
Pizza alla romana: la sottile e “scrocchiarella”
La variante più simile alla pizza napoletana è la cosiddetta pizza romana. In questo caso la pasta viene lavorata e tirata in modo da ottenere un disco dallo spessore basso e uniforme. L’assenza del cornicione è la prima evidente differenza con la pizza napoletana, mentre l’altra riguarda la consistenza: la pizza romana è detta anche scrocchiarella per via della sua croccantezza. A renderla tale contribuiscono sia l’aggiunta di olio già nell’impasto, sia la cottura, che avviene sempre a diretto contatto col piano del forno, ma a temperatura inferiore e per qualche minuto in più rispetto alla napoletana: indicativamente dai 7 ai 10 minuti a circa 250 °C. Viene chiamata pizza “romana” per distinguerla, appunto, dalla napoletana verace, ma la sua diffusione è pressoché capillare. I condimenti possono essere i più svariati, tra i più classici: pomodoro e mozzarella, capricciosa (ovvero: pomodoro, mozzarella, prosciutto cotto, olive, funghi e carciofi), quattro stagioni (stessi ingredienti della capricciosa, ma separati l’uno dall’altro, in modo da avere quattro spicchi con quattro gusti diversi) e marinara (pomodoro, aglio e origano).
La variante “alla pala” e la pinsa romana
Quando si parla di pizza romana o alla romana, oltre alla classica tonda senza cornicione, si può fare riferimento anche a una particolare tipologia, che è più prettamente legata al Lazio e a Roma in particolare. Si tratta della pizza alla pala, così definita per via del supporto utilizzato per infornarla. La pala, tradizionalmente in legno, è costituita da un lungo manico e da una parte terminale ovoidale. È qui che l’impasto viene steso prima di andare in cottura, con la pizza che, una volta sfornata, risulterà modellata su questa forma. Anche per la pizza alla pala la croccantezza è un aspetto caratterizzante, così come l’alveolatura della pasta. Per ottenere questo risultato è fondamentale la lavorazione dell’impasto, che prevede un’alta idratazione, ovvero una percentuale d’acqua tra il 75% e l’80% del totale e lunghi tempi di lievitazione (da un minimo di 24 ore, sino a 48 e oltre). Tra i condimenti più tipici della pizza romana alla pala: mozzarella, fiori di zucca e alici e porchetta e puntarelle, anche se la più classica è la bianca. Praticamente la superficie viene cosparsa solo con un po’ di sale e olio, presentandosi più come una focaccia. Questa versione si presta molto a essere tagliata in due e farcita a piacere, ad esempio con della mortadella. Protagonista oggi dello street food romano, quella della pizza bianca è una tradizione legata all’abitudine degli antichi fornai capitolini di inserire una parte dell’impasto nel forno in modo da testarne la temperatura.
Rimanendo nell’ambito della pizza alla pala, vale la pena citare la cosiddetta pinsa. Un nome registrato nel 2001 dall’imprenditore romano Corrado Di Marco, titolare dell’omonima azienda. Si presenta esattamente come una pizza alla pala, ma si differenzia per l’utilizzo di lievito madre e soprattutto per l’impasto ottenuto dal mix di farine di frumento, soia e riso. Proprio la farina di riso, in particolare, sarebbe determinante nell’assorbimento dell’alta percentuale di acqua (sempre intorno all’80%) sul totale dell’impasto. Aspetto che, insieme alla modesta quantità di olio utilizzato e ai lunghi tempi di lievitazione, contribuisce a conferirle quell’alta digeribilità che ne ha favorito l’apprezzamento e la diffusione. Nata come prodotto di nicchia, è arrivata infatti a contare più di 5000 pizzerie dedicate in tutto il mondo, con la costituzione di un albo dei pinsaioli, curato dall’associazione “Originale Pinsa Romana”, creata dallo stesso Di Marco.
Pizza al tegamino, la variante torinese
La pizza al tegamino, detta anche “al padellino”, è una specialità nata e radicatasi in Piemonte, a partire soprattutto da Torino. Pare, infatti, che negli anni trenta del XX secolo sia stata ideata da un pizzaiolo che voleva velocizzare i tempi di preparazione della pizza. L’impasto, simile a quello della pizza napoletana, viene infatti steso all’interno di padelle in alluminio o in ferro del diametro di 20-25 cm, parzialmente condito con la passata di pomodoro e lasciato quindi riposare, in attesa di completarlo poi col resto degli ingredienti e di passare infine alla cottura. La pizza al tegamino si presenta più alta e soffice rispetto alle altre tipologie di pizza viste finora. Somiglia più a una focaccia, per via soprattutto della fase di lievitazione in padella, che dura in genere 24 ore. In pratica, l’impasto vive una seconda fase di lievitazione, che ne determina quindi lo spessore finale. Altra caratteristica è la croccantezza alla base, dovuta sia al contatto ravvicinato con la superficie di cottura, sia all’accorgimento di oliare la padella prima di stendervi l’impasto. In questo modo, oltre a evitare che la pasta in cottura possa attaccarsi troppo ai bordi, si crea un effetto frittura alla base, formando una crosticina croccante che crea un piacevole contrasto con la morbidezza della parte superiore. Inizialmente preparata nelle tradizionali versioni con pomodoro, mozzarella e origano o alla marinara – ovvero senza la mozzarella, ma con l’aggiunta di acciughe e aglio – la pizza al tegamino è rimasta molto legata alla città di Torino, dove si trovano oggi numerosi locali dedicati che la propongono con i più svariati condimenti.
Pizza al trancio, la regina di Milano
In maniera simile alla pizza al tegamino a Torino, la pizza al trancio ha saputo trovare diffusione soprattutto a Milano e dintorni. È qui che si è radicata, a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso, per poi conoscere un vero e proprio boom negli anni ‘80. Si prepara in grosse teglie metalliche (solitamente ferro o alluminio, più raramente rame) tondeggianti e dal bordo alto qualche centimetro, dove l’impasto viene steso e condito prima di essere infornato, tradizionalmente in forno a legna, ma sempre più spesso ormai in quello elettrico. Quest’ultimo permette, infatti, di gestire meglio la fase di cottura, che non deve essere troppo violenta, com’è invece per la pizza napoletana. La pizza al trancio necessita piuttosto di temperature intorno ai 250 °C e di tempi che difficilmente vanno oltre i dieci minuti. Questo contribuisce a cuocerla uniformemente e a evitare che si secchi troppo, garantendo quella sofficità che ne è tratto distintivo. A differenza della pizza al tegamino, viene infatti tagliata e servita in tranci triangolari dello spessore di circa un centimetro. Anche in questo caso si gioca sul contrasto tra la morbidezza della parte superiore e la base, generalmente più croccante. Il classico trancio margherita si usa condirlo con un abbondante strato di mozzarella, che copre quasi completamente la passata di pomodoro distribuita sulla superficie.
Le specialità nate dalla cultura della pizza
Il successo e la diffusione della pizza in tutto il Paese ha prodotto anche il diffondersi di specialità che ne sono strettamente correlate e che ne condividono alcuni tratti in comune. Dal calzone alla pizza fritta, fino allo sfincione, protagonista dello street food palermitano.
La tradizione del calzone
Una specialità strettamente imparentata con la pizza e di solito presente nel menù delle pizzerie è il calzone. Viene impastato e steso allo stesso modo della pizza tonda classica, ricavandone quindi un disco su metà del quale disporre gli ingredienti di farcitura. Vi si ripiega poi sopra l’altra metà con l’accortezza di far combaciare i bordi e di sigillarli, solitamente a mano, in alcuni casi aiutandosi coi rebbi di una forchetta. Cotto al forno, si presenta a forma di mezzaluna panciuta, con la pasta nuda in superficie irregolarmente bollata su cui viene aggiunto un filo d’olio EVO e, in alcuni casi, altri elementi di condimento, come fette di prosciutto o pomodorini, rucola e grana a scaglie. Specialità le cui tracce storiche riconducono sempre a Napoli, agli inizi del XIX secolo, ha trovato nel tempo diffusione in tutta Italia, differenziandosi localmente, sia per gli ingredienti di farcitura, sia per l’impasto e la modalità di cottura. Tra i parenti stretti del calzone c’è, ad esempio, il panzerotto pugliese: un calzone di pasta lievitata di piccole dimensioni, farcito e solitamente fritto in olio (solo in alcune reinterpretazioni cotto al forno), protagonista dello street food barese.
Pizza fritta, la sorella povera che è diventata “L’oro di Napoli”
La pizza fritta è considerata la sorella “povera” della pizza napoletana. La sua diffusione è legata, infatti, al dopoguerra, quando il nostro paese attraversò un periodo di miseria. All’epoca la pizza era ormai una specialità tradizionale diffusa in tutta Napoli, ma c’era difficoltà nel procurarsi gli ingredienti per prepararla. Pomodoro e mozzarella erano diventati un lusso che pochi potevano permettersi, allo stesso modo del forno a legna per cuocerla. Da qui l’idea della pizza fritta, che ognuno poteva preparare a casa senza bisogno del forno. A partire dallo stesso impasto della pizza napoletana, si friggeva tutto nello strutto fino a completa doratura per poi farcire, tipicamente con ricotta di bufala e ciccioli. Da specialità popolare, la pizza fritta è diventata oggi un simbolo della cultura napoletana: citata anche nel film “L’oro di Napoli” di Vittorio De Sica, è uno dei cibi di strada più diffusi tra rosticcerie e locali della città. Per la frittura, lo strutto di suino è stato ormai sostituito dall’olio, così come nella farcitura hanno trovato spazio i più svariati ingredienti, tra cui anche la Mozzarella di Bufala Campana DOP, il salame Napoli, salsiccia e friarielli, solo per citare alcuni esempi di prodotti tipicamente locali. La morbidezza della pasta e il suo gonfiarsi, lasciando uno spazio interno vuoto, la rendono ideale da tagliare nel mezzo e riempire a piacere. Un altro modo di proporla è con gli ingredienti disposti in superficie e poi chiusa a portafoglio e avvolta nella carta paglia per consumarla a mo’ di panino. Più tipicamente però si prepara alla maniera del calzone, richiudendo il disco di pasta stesa su se stesso per poi friggerlo con il ripieno già all’interno. In questo caso diventa ancora più importante e delicata la fase di sigillatura dei bordi. Da citare, infine, la variante nota come montanara, ovvero una pizza fritta di piccole dimensioni, tonda e condita semplicemente con pomodoro, mozzarella e basilico.
Sfincione: l’alfiere della tradizione sicula
Non possiamo concludere questa panoramica sui tanti modi di dire pizza in Italia senza citare lo sfincione palermitano. Dalle origini tanto incerte quanto antiche, può essere considerato a pieno titolo l’antenato della pizza al trancio. Il suo nome deriva dal latino spongia, che significa “spugna” e si rifà alla caratteristica morbidezza dell’impasto. Lo sfincione si presenta, infatti, alto circa un centimetro, con una sottile base croccante e la parte lievitata soffice. Anche in questo caso, l’impasto vive una doppia lievitazione: la prima dopo aver lavorato gli ingredienti e formato la tipica palla di pasta; la seconda dopo averla stesa in teglia. Tradizionalmente cotto in forno a una temperatura intorno ai 250 °C, si usa tagliarlo in tranci rettangolari e condirlo con pomodori pelati, cipolla, acciughe, origano, caciocavallo e pangrattato. Come abbiamo visto nell’articolo sui prodotti da forno alternativi al pane, lo sfincione è un prodotto tipicamente siciliano, protagonista dello street food di Palermo e incluso nel registro PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali) del MIPAAF.
Chissà che tutto questo parlare di pizza non vi abbia ingolosito al punto da dirci: qual è la vostra versione preferita di questa specialità ambasciatrice della cultura italiana nel mondo?
L’articolo Tanti modo di dire “pizza”, dalla napoletana verace alla pinsa romana sembra essere il primo su Giornale del cibo.