La riduzione della pesca è una conseguenza inevitabile del depauperamento delle risorse marine, sia in quanto constatazione del calo delle catture sia che la si intenda come misura a tutela della fauna ittica. Questa seconda casistica da tempo fa discutere per l’impatto economico-sociale su un intero settore, che ormai da anni mostra una progressiva contrazione, ma anche enormi disuguaglianze tra l’attività delle grandi flotte multinazionali e quella delle piccole realtà locali. Recentemente, inoltre, il controverso documentario Netflix Seaspiracy, nelle sue conclusioni, ha negato la plausibilità del concetto di pesca “sostenibile”. Ma qual è la situazione, anche a livello normativo, e come affrontare la crisi senza compromettere gli stock ittici in chiave ecologica ed economica? Per saperne di più abbiamo coinvolto Valentina Tepedino di Eurofishmarket, veterinaria specializzata in igiene, allevamento e ispezioni alimentari, referente nazionale della Società italiana di Medicina veterinaria preventiva per i prodotti ittici.
Pesca commerciale: quali sono i problemi da affrontare?
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Dopo decenni di sovrasfruttamento, ormai da tempo sono evidenti i danni dovuti alla pesca eccessiva, che costituisce una delle più gravi minacce per la vita nei mari. Questa situazione perdura, e come segnala il WWF il 31% degli stock ittici globali è sfruttato oltre i limiti di sostenibilità, mentre il 61% lo è al massimo del tollerabile per il recupero naturale. Anche nel Mediterraneo le cose non vanno bene, con il 93% degli stock sovrasfruttati, dalle acciughe adriatiche al pregiato gambero rosso, o ancora al sempre più raro pesce spada, soggetto a una mortalità da pesca quasi doppia rispetto ai parametri di sostenibilità. A ciò si aggiunge l’impatto dei cambiamenti climatici, che ha favorito anche la diffusione di pesci esotici tropicali e subtropicali.
Questo quadro sconfortante ha imposto una riduzione della pesca, con misure di conservazioni e difesa per le creature del mare e una revisione complessiva della gestione delle risorse, sia in chiave ecologica sia a beneficio del settore ittico a lungo termine. Per quanto riguarda il Mediterraneo, questa attenzione deve essere sviluppata nei tanti Paesi che vi si affacciano, a partire dal coordinamento di quelli che appartengono all’Unione europea. Il contenimento dei prelievi deve essere accompagnato dal monitoraggio scientifico degli stock ittici, nel segno di una cultura di responsabilità e di un rispetto per il mare condivisi tra operatori del settore, decisori politici e società civile.
I danni della pesca illegale
Le condizioni già preoccupanti delle risorse ittiche sono aggredite anche dalla pesca illegale, che compromette a lungo termine gli habitat, e dalle catture accidentali, un flagello per diverse specie prive di interesse commerciale e per gli esemplari giovanili dei pesci oggetto di prelievo.
Ogni anno nel mondo vengono prelevate illegalmente tra 11 e 26 tonnellate di pesce, che in termini economici corrispondono a perdite totali tra i 10 e i 23,5 miliardi di dollari. Come riporta WWF, secondo le stime le catture illegali valgono tra il 13 e 31% della produzione ittica dichiarata, con punte del 40%, pescato che riesce ancora ad infiltrarsi nelle filiere regolamentate.
L’evoluzione normativa del settore ittico
Per gli Stati europei l’applicazione del concetto di salvaguardia delle risorse del mare è iniziata con la Politica comune della pesca (Pcp), formulata per la prima volta nel Trattato di Roma del 1957 e inizialmente collegata alla politica agricola comune (Pac). Dagli anni Settanta si abbandonò il principio della libertà di accesso al mare, accettando che la governance delle risorse ittiche rientrasse nelle competenze della Comunità europea. La Pcp prevede norme per la gestione delle flotte pescherecce e la conservazione degli stock ittici. Il sistema di controllo della pesca è di competenza nazionale, mentre la verificata spetta alla Commissione. Aggiornata a più riprese, dal 2002 con il Trattato di Lisbona la Pcp mira anche a garantire redditi e occupazione stabili per i pescatori.
Nel 2013 il Consiglio e il Parlamento Ue si sono accordati per una nuova Pcp, ponendo come obiettivo la sostenibilità a lungo termine della pesca e dell’acquacoltura sul piano ambientale, economico e sociale. Il Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (Feamp) ha lo scopo di gestire le risorsa ittiche, offrendo a tutte le flotte europee un accesso paritario alle acque dell’Ue e permettendo ai pescatori di competere equamente. Ad oggi, le azioni relative al Feamp per il periodo 2021-2027 proseguono in base alla risoluzione legislativa del Parlamento Ue del 4 aprile 2019. Il 5 febbraio 2021 la Commissione per la pesca ha approvato la localizzazione di tutti i pescherecci, l’informazione relativa a tutte le catture e il miglioramento della tracciabilità dei prodotti della pesca.
Cosa cambia dopo la Brexit?
L’uscita del Regno Unito dall’Unione europea ha determinato alcune modifiche sulla pesca, e dal 2025 non sarà più valido il quadro di riferimento attuale, con il passaggio a nuove quote tra Ue e Uk, con una riduzione del 25% per l’Ue. Il periodo di transizione si protrarrà fino al 30 giugno 2026: in questa fase l’accesso alle acque britanniche sarà garantito, e il 10 dicembre di ogni anno saranno concordate le condizioni per l’anno seguente.
Riduzione della pesca: una provvedimento che fa discutere
Nel dicembre scorso hanno fatto discutere i nuovi limiti sulle giornate di pesca per il 2021 delle specie demersali (che vivono nei pressi dei fondali, come spigola, triglia, seppia, gambero rosso, ecc.) nel Mediterraneo occidentale. Rispetto alla proposta iniziale della Commissione europea e a seguito di un’intensa negoziazione, la riduzione è passata dal 15% al 7,5%. Questa misura rientra nell’impegno per un calo graduale fino al 40% entro l’inizio del 2025, per raggiungere progressivamente il rendimento massimo sostenibile per tutti gli stock interessati da questa tipologia di pesca.
Chi ha osteggiato il provvedimento – mirato a limitare la pesca a strascico sui fondali – ha sottolineato che questa scelta favorirà l’importazione da Paesi terzi, come abbiamo visto ad esempio nel caso dei gamberi, molti dei quali operano nel Mediterraneo con tecniche e dimensioni decisamente più impattanti per la biodiversità. La crisi dettata dalla pandemia, peraltro, ha comportato un calo notevole nell’attività delle marinerie.
Seaspiracy: la pesca sostenibile non esiste?
Recentemente il documentario Seaspiracy di Ali Tabrizi, apparso sulla piattaforma Netflix, ha contribuito a fomentare il dibattito sulla pesca commerciale, negandone la sostenibilità. In sintesi, questa conclusione radicale viene motivata da questi presupposti:
- l’inquinamento da plastica sarebbe dovuto soprattutto alle reti di nylon abbandonate e disperse in mare e dai frammenti di queste;
- le catture accidentali di specie estranee al mercato (tartarughe, delfini, squali, uccelli marini, ecc.) sarebbero numericamente spropositate rispetto ai quantitativi di esemplari oggetto di pesca;
- il depauperamento degli ecosistemi marini – principali fonti di ossigeno del pianeta – sarebbe dovuta anche al prelievo di pesci, oltreché alla distruzione fisica degli ambienti subacquei;
- l’attività delle associazioni ambientaliste a difesa del mare sarebbe in gran parte insufficiente, quando non dettata da connivenze con l’industria della pesca;
- i marchi che certificano la pesca sostenibile non sarebbero affidabili, in quanto attribuiti soprattutto in base a logiche di profitto;
- le grandi flotte di pescherecci, specialmente in Asia, si avvarrebbero in larga misura di lavoratori in condizioni di sfruttamento prossime allo schiavismo.
Pur avendo il merito di dare risalto al tema dell’inquinamento marino e a problemi reali del settore ittico, il documentario propone tesi quantomeno discutibili, smentite dalle stesse organizzazioni ambientaliste coinvolte nelle interviste presentate. Come si sottolinea su The Guardian, a lasciare perplessi sono anche i dati presentati, errati o superati dalle ricerche.
Riduzione della pesca: come superare la crisi del settore?
Aiutandoci a comprendere meglio la situazione e le prospettive del settore, Valentina Tepedino di Eurofishmarket puntualizza che “per la produzione ittica italiana, il problema su cui concentrarsi non è la riduzione della pesca, ma la carenza di organizzazione che ancora frena il settore. Oggi, per lo più, il mercato alla fonte non è molto organizzato per tanti aspetti, dal mancato coordinamento tra i pescatori della stessa specie alla insufficienza di una gestione utile a valorizzare il proprio pescato, attraverso una tracciabilità garantita o un confezionamento o una logistica ad hoc. Spesso, dunque, si finisce con lo svendere i prodotti già all’ingrosso. Molti pescatori, inoltre, non sono preparati per vendere al dettaglio, aspetto che si è rivelato fondamentale durante la pandemia. I produttori più colpiti dalla crisi sono quelli abituati a vendere solo ai ristoratori, mentre chi vendeva ai commercianti o chi ha saputo organizzarsi è riuscito a sopperire con la vendita diretta, oppure entrando in canali differenti, compresa la grande distribuzione”.
Autoregolamentazione e pesca su richiesta
Parlando di quantitativi prelevati, secondo la veterinaria “assistiamo anche a interessanti e positivi esempi di autoregolamentazione. L’Organizzazione dei produttori di fasolari, che conta oltre sessanta imbarcazioni e 150 pescatori, è unita a livello nazionale e si è autogestita con successo. Oltre a coordinarsi per pescare a turno esclusivamente i quantitativi ‘prenotati’ dai clienti, si sono imposti dei periodi di fermo pesca di oltre quaranta giorni in più rispetto a quelli obbligatoriamente previsti dal Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali, per favorire ulteriormente il recupero della risorsa ittica: questa sospensione è applicata alternando l’uscita delle barche a rotazione. Quindi, hanno compreso che è dannoso e controproducente fare una pesca abbondante di prodotto per poi doverlo deprezzare perché non c’è sufficiente richiesta. Con prelievi basati esclusivamente sulla reale domanda stanno avendo risultati migliori, tanto che altri produttori hanno deciso di seguire questo modello. Così facendo, peraltro, nei mercati il pesce si vende meglio e a prezzi superiori. Inoltre, sono anche partiti con realizzare prodotti lavorati e trasformati a base di fasolari, donando così al prodotto una maggiore shelf life e più marginalità. Anche l’Organizzazione di produttori bivalvia con i lupini e quella del Polesine con le cozze DOP e biologiche stanno lavorando in questa direzione, coinvolgendo centinaia di produttori”.
Qualità, promozione e gestione della domanda
Alle pecche appena citate, secondo Valentina Tepedino, si aggiunge una scarsa valorizzazione del pesce italiano, “per gli aspetti che ho citato molti produttori non sono ben organizzati e quindi poco competitivi, e questo non dipende dalle giornate di pesca. Il prodotto estero spesso risulta avvantaggiato per una serie di aspetti, a partire dai costi, ma spesso anche da una logistica più efficiente, dalla presenza di certificazioni o attestazioni specifiche, per il servizio o per la più lunga shelf life. La mancanza di un progetto e di una politica comune costituisce quindi il vero problema. Anche nell’acquacoltura, i produttori di trota faticano a smaltire il prodotto, scontando la mancanza di una buona politica di promozione, ma anche di cooperazione nella valorizzazione del prodotto. Al di là del brand Made in Italy, non ci sono argomenti per esaltare le produzioni nazionali in senso generale, perché tra gli allevamenti ci sono grandi differenze, pertanto non si può parlare di buona acquacoltura italiana, che è notevolmente differenziata a seconda di chi la pratica. Inoltre, è sbagliato ritenere la nostra produzione sempre più sicura rispetto a quella greca o croata, perché anche in quei Paesi si è tenuti a rispettare le normative europee. Tutto quello che arriva in Italia deve attenersi alle leggi, soprattutto se parliamo di Stati membri Ue. A tale proposito, servirebbe una politica comune di valorizzazione con standard specifici, verificabili e utili a ben classificare il prodotto ittico allevato nazionale con precise caratteristiche di qualità”.
Secondo la veterinaria, “come qualcuno ha già capito, quello che dovremmo fare è mettere in luce la qualità, indicando i parametri che la distinguono. La grande distribuzione, ad esempio, ha richiesto prodotto Made in Italy – anche per questioni di marketing e reputazione, per sostenere le aziende italiane – ma in molti casi non si è riusciti a soddisfarle per carenze organizzative dei produttori rispetto a ordinazioni, etichettatura e tracciabilità. Si potrebbe tranquillamente pescare meno, allevare di più e vendere meglio”.
L’acquacoltura è sempre più rilevante
Anche a prescindere dalla riduzione della pesca, Tepedino aggiunge che “in questo quadro l’acquacoltura gioca un ruolo sempre più importante. Già ora abbiamo superato il 50% sul consumo a livello mondiale, e l’Europa segue questo andamento. Questo è il futuro, perché continua ad aumentare sia la popolazione che mangia pesce, in Occidente come in Asia e Africa, e per forza di cose l’unico settore che può rispondere a questa richiesta è l’acquacoltura. Tante realtà che sto seguendo stanno andando verso la sostenibilità e la ricerca del benessere in allevamento, con ricerche su mangimi, sicurezza e rispetto per i pesci: gli sforzi e i progressi per risolvere i principali problemi dell’acquacoltura sono notevoli. Basti pensare ai passi avanti realizzati sulla qualità e l’innovazione dei mangimi, come ad esempio quelli detti a ‘zero emissioni’, a chi produce impegnandosi a compensare il rilascio di anidride carbonica, acquistando crediti di carbonio per sostenere progetti a favore dell’ambiente, come la riforestazione in Amazzonia. Ad esempio, c’è chi ha deciso di usare solo soia europea nei mangimi italiani per orate, branzini e trote, escludendo quella extracomunitaria. Questo sia per ridurre le importazioni da grandi distanze sia per evitare di favorire fenomeni di deforestazione. Inoltre, si stanno conducendo studi su insetti e microalghe, non ancora economicamente sostenibili, ma molto promettenti per la mangimistica”.
“Le innovazioni sono molte”, prosegue Valentina Tepedino, “e personalmente ho fatto anche un approfondimento sull’itticoltura della ricciola oceanica, che in Olanda viene allevata a terra a circuito chiuso, in modo sostenibile, controllato ed efficiente. Ci sono notevoli vantaggi ambientali, ma anche in termini di biosicurezza, per evitare la trasmissione delle malattie. Chi non è etico per filosofia lo sta diventando per interesse, e le novità sono costanti. Passi avanti sono stati fatti anche sullo smaltimento, per il riutilizzo della pelle e degli scarti, che fino a poco tempo erano trattati come rifiuti speciali. Man mano ci si sta convertendo alla logica dell’economia circolare, come è successo per la riammissione dei mangimi da determinati scarti animali, il cui uso per ragioni di immagine era rifiutato dalla grande distribuzione, un’evidente contraddizione in termini ecologici. Ora, fortunatamente, questo atteggiamento sta cambiando”.
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