Rendere il cibo accessibile a quante più persone possibili e, allo stesso tempo, ridurne l’impatto sull’ambiente. Questo è l’obiettivo che lega Governi, istituzioni europee e aziende private che scelgono la sostenibilità – nella triplice declinazione di ambientale, sociale ed economica – come valore per lo sviluppo del settore food.
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In linea, inoltre, con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile che pongono l’accento sulla necessità di una gestione “green” dell’intero comparto alimentare e di agire sulla riduzione dei rifiuti, anche in Italia sono presenti iniziative legislative e di regolamentazione che aiutano imprese e cittadini. Tuttavia non è sempre semplice per il consumatore capire quali prodotti siano davvero sostenibili, quali aziende rispettano lavoratori e ambiente e come fidarsi delle certificazioni.
Ne abbiamo parlato insieme al dottor Matteo Ferrari, docente del Corso di Alta Formazione in Diritto Agroalimentare organizzato dalla Fondazione Forense Bolognese in collaborazione con Fondazione FICO, Campagna Spreco Zero e CAAB, Centro Agroalimentare di Bologna, e del quale siamo media partner.
Diritto agroalimentare e ambiente: intervista al dottor Matteo Ferrari
Cosa prevede la legislazione nazionale ed europea in termini di sostenibilità del settore food e di lotta contro gli sprechi alimentari? Come si certifica se un prodotto è o meno “green”? E come si svilupperanno le politiche future in questo ambito? Queste sono alcune delle domande che abbiamo posto al dottor Ferrari, ricercatore di Diritto Agrario all’Università di Trento e docente del Corso di Alta Formazione della Fondazione Forense Bolognese.
Contro lo spreco alimentare: la strategia del legislatore e la Legge Gadda
“Quando parliamo di sostenibilità a livello europeo dobbiamo fare riferimento al pacchetto di iniziative noto come ‘Green Deal’ e alla comunicazione “Farm to fork strategy”, promossa nel maggio del 2020” introduce l’argomento l’intervistato. Con questi documenti, l’Unione Europea ha immaginato una serie di azioni regolative sulla gestione della filiera con l’obiettivo di renderla più sostenibile.
In questo contesto, si affronta il tema della gestione dei rifiuti alimentari che, come abbiamo visto parlando del valore degli sprechi, è un fattore prioritario. “Il documento europeo pone come obiettivi il dimezzamento dello spreco alimentare pro capite entro il 2030 e una revisione delle indicazioni relative alla data di scadenza perché si ritiene che una loro errata interpretazione da parte dei consumatori possa essere una delle concause dello spreco alimentare.”
A livello italiano invece il legislatore è intervenuto sul piano degli incentivi più che delle imposizioni: “la legge prevede dei meccanismi che favoriscono la riduzione dello spreco alimentare dal punto di vista fiscale e della gestione dei prodotti, ad esempio in materia di etichettatura, mantenendo salda la tutela della sicurezza alimentare, ma aiutando le aziende a non gettare tutto ciò che si avvicina alla scadenza.”
Questo per rispondere alle esigenze del privato che tende ad anticipare il pubblico promuovendo iniziative che mettono in circolo, in sicurezza, alimenti che andrebbero buttati (come, ad esempio, aderire a piattaforme come Too Good To Go o Squiseat, oppure a progetti come l’Alleanza per l’Economia Circolare). In questo contesto, il pubblico prevede premi e riconoscimenti per realtà virtuose che possano essere d’esempio anche per gli altri.
“In questa fase” aggiunge il ricercatore, “un sistema incentivante può essere considerato un ponte per stimolare buone pratiche e un cambiamento culturale. Quando una questione inizia a essere percepita come importante e condivisa, allora è più probabile che si possa passare a misure obbligatorie prevedendo un sistema di sanzioni in caso di mancato rispetto.”
In Italia, resta molto attuale e importante la cosiddetta Legge Gadda del 2016 che punta su incentivi e semplificazioni burocratiche per aiutare le aziende a ridurre gli sprechi. E, come ci raccontava l’On. Maria Chiara Gadda, promotrice della legge, “la legge 166/16 è stata scritta per agevolare il recupero delle eccedenze per solidarietà sociale. Ma l’obiettivo della legge è anche quello di diffondere un messaggio culturale, e i numeri lo dimostrano più di tante teorizzazioni”.
Come si certifica la “sostenibilità”?
Sostenibilità non significa però soltanto lotta contro gli sprechi, ma si applica all’intera filiera alimentare e arriva fino alla tavola. In Italia e in Europa assume sempre maggiore valore per le aziende, consapevoli che è un fattore che condiziona le scelte dei consumatori. Proprio pensando a chi porta a tavola gli alimenti, sono state sviluppate numerose certificazioni che aiutano a individuare facilmente un prodotto “sostenibile”.
“Le imprese ci credono e investono” aggiunge il dottor Ferrari, “sia singolarmente sia a livello consortile e associativo. Ciò avviene per varie ragioni: il fatto che c’è mercato per il prodotto sostenibile, l’aspetto etico legato alla tutela dell’ambiente e delle persone, e la presenza di incentivi e finanziamenti pubblici, frutto delle politiche europee che spingono in questa direzione”.
Esistono, dunque, diversi strumenti dal punto di vista giuridico che fanno sì che la sostenibilità non sia un’etichetta vuota di contenuti. A questo proposito, “uno degli interventi pubblici” ci spiega il ricercatore, “riguarda l’etichettatura. Ad esempio, quella che definisce il ‘made green in Italy’ che è disciplinata a livello nazionale e, di fatto, identifica e veicola informazioni a proposito dell’origine territoriale del prodotto e della sostenibilità della filiera.”
A proposito dell’etichettatura, Ferrari aggiunge che “si tratta di uno schema in base al quale la possibilità di inserire il logo Made green in Italy in etichetta è condizionato al rispetto di alcuni requisiti in termini di prestazione ambientale lungo l’intero ciclo di vita del prodotto.”
Imparare a riconoscere le certificazioni private
Ci sono anche le certificazioni e gli standard privati, sempre più diffusi come abbiamo visto parlando del bollino Friends of the Sea. “Si tratta di una forma regolativa privata che si sviluppa parallelamente a quella pubblica e con essa interagisce e contribuisce alla declinazione di cosa significa sostenibilità” precisa il dottor Ferrari, a cui chiediamo di spiegarci come funzionano le certificazioni private.
“Ci sono sempre due tipi di soggetti coinvolti: chi fissa le regole in base a cui si viene certificati, ovvero gli standard, e chi si occupa dell’effettiva applicazione delle regole, i certificatori. La affidabilità dipende da entrambi questi soggetti, sia da chi, che può essere un privato o una Non profit, stabilisce i paletti da rispettare, sia di chi controlla l’applicazione.”
Non c’è un criterio oggettivo per capire se una certificazione privata sia valida oppure no. Tuttavia, l’intervistato ci indica alcuni aspetti a cui prestare attenzione, a partire proprio da chi ha posto le regole e chi le applica. Talvolta ci sono anche delle realtà non profit e organizzazioni non governative che esercitano una forma di monitoraggio sulla sostenibilità di alcuni frammenti delle filiere. “Gli enti di normazione più importanti negli ultimi anni hanno scelto di coinvolgere sempre di più produttori e consumatori proprio perché sono consapevoli che il successo di una certificazione dipende anche da quanta fiducia è capace di trasmettere”, aggiunge l’intervistato.
Dal punto di vista, invece, di chi verifica l’applicazione degli standard, in Italia esiste un sistema pubblico di accreditamento, ACCREDIA, che autorizza gli enti di certificazione ad agire come enti certificatori per quelle certificazioni che soggiacciono ad una disciplina pubblicistica. Questi ultimi possono operare sia nell’ambito pubblico – pensiamo alle certificazioni DOP, IGP o Bio – sia nel privato. “Di fatto, in questo caso siamo di fronte a un meccanismo di garanzia validato dallo Stato, e il consumatore può sentirsi rassicurato se una realtà accreditata da ACCREDIA opera anche nel privato.”
Il futuro della sostenibilità nelle regolamentazioni
La definizione di sostenibilità resta complessa da ritrovare in ambito legale, ma proprio in questo settore è facile pensare che in futuro si potranno trovare sempre più regolamentazioni che la portano nel concreto, nel singolo settore o nello specifico pezzettino della filiera. “Le politiche dell’Unione Europea spingono in questa direzione e in quella di una maggiore equità e divisione del valore per tutti gli attori. Proprio perché la sostenibilità sarà uno dei motori che genererà profitto in futuro, l’UE richiede una visione di condivisione che coinvolga tutti, dal piccolo produttore al consumatore.”
Questo, ci spiega il ricercatore, si riflette nelle norme che regolano il funzionamento dei mercati agroalimentari, ovvero in tutte quelle politiche atte a prevenire eccessive concentrazioni e favorire l’aggregazione di piccoli produttori per avere una forza tale per negoziare con grandi player della filiera. “L’altro ambito di azione, sempre dal punto di vista normativo, riguarda gli aspetti contrattuali, vietando (direttiva n.633 del 2019) una serie di pratiche commerciali scorrette che generano un disequilibrio tra produttori e acquirenti e trasformatori o distributori”. Un esempio italiano riguarda, ad esempio, il DDL che vieta le aste a doppio ribasso che penalizzano fortemente i più piccoli del mercato, oltre che la qualità dell’offerta.
È importante ricordare, in conclusione, come il raccordo tra le componenti della sostenibilità (ambientale, sociale ed economica) non possa essere compiuto a livello generale, secondo Ferrari, che invece evidenzia come sia necessario tenere conto delle peculiarità delle singole filiere e delle pratiche di lavorazione di ciascun prodotto. “Ad esempio” ci spiega ancora il ricercatore, “nel settore vitivinicolo vi sono operatori privati, quale ad esempio Equalitas, società nata da un’iniziativa congiunta di Unione Italiana Vini e di Federdoc, che hanno elaborato metodi e requisiti specifici per misurare il livello di sostenibilità in vigneto e cantina. Si tratta di uno standard certificabile che può essere utilizzato sia da singoli produttori che dai consorzi di tutela.” È qui che, dal punto di vista del legislatore e della regolamentazione, vedremo come verrà declinato nel concreto il concetto di sostenibilità.
La sostenibilità, dunque, è e sarà in futuro un elemento importante nel guidare le azioni di singoli, aziende e legislatore. E non soltanto: dalla lotta contro gli sprechi agli incentivi per soluzioni ecologiche, questa è la direzione in cui si svilupperà la filiera del food, fondamentale asset per il made in Italy.
L’articolo Diritto agroalimentare e ambiente: “la sostenibilità non è un’etichetta vuota” sembra essere il primo su Giornale del cibo.